Non sò cosa sia questa vita forse come dice il mio amico Angelo ... è tutta una follia ...

Appunti di Viaggio 147 -LE SPINE DI EUTONIA






LE SPINE DI EUTONIA 
(Raccontomania)


Eutonia della Julia... Nessuno sapeva come mai il vecchio Reverendo l’avesse battezzata con quello strano nome. Alle prime domande della piccola, il nonno le diceva che era nata come un dolce tuono di primavera e che l’eco del suo nome arrivava fin giù allo spiazzo del castagno, anche se poi, crescendo, tutti finirono per chiamarla Apé, diminutivo di apétala. Questo nomignolo le era stato dato dal padre Filippo perché, sin da piccola, aveva un’irrefrenabile abitudine di rendere nudo ogni fiore che incontrava. Filippo de La Coruña, così lo chiamavano, era un vaccaro catalano che aveva trovato ospitalità in un vecchio casone di pietra, due vani in tutto con annessa stalla, resosi libero alla fine della guerra con gli austriaci. Apé era una bimba solare e decisamente intraprendente. Già all’età di sei anni saliva, in solitaria, l’ombroso vallone costeggiando un profondo dirupo per un sentiero di terriccio scivoloso, poco più largo di mezzo metro. Lo conosceva così bene che riusciva a percorrerlo anche all’indietro e ad occhi chiusi, nella più fitta nebbia. Per quel tragitto Apé portava a pascolare le capre, non più di una mezza dozzina di capi, inerpicandosi su per i monti fino a raggiungere i rocciosi anfratti della Julia. Così come il forcipe l’aveva strappata dal grembo della madre, che morì di polmonite tre anni dopo averla messa al mondo, allo stesso modo Apé strappava i fiori dalla terra. Li coglieva con la stessa foga che aveva la perpetua “tuttofare” del Reverendo quando veniva chiamata a prestare assistenza, come levatrice, alle poche anime di paese. Il trasporto che Apé aveva verso i fiori era crudele e sincopato, spiluccava e seminava petali al vento come coriandoli alla festa di Sveta Gora. Con la sola punta affusolata delle dita selezionava le variopinte corolle e le riponeva, a mo’ di collezione, in una piccola bisaccia di cotenna, cucita ad arte con budello essiccato da suo nonno, passato a miglior vita quando lei aveva appena sette anni. All’età di undici anni era conosciuta anche con l’appellativo di “occiatìn” perché, nonostante la sua tenera età, non faceva sconti sull’offrire una sbirciatina al suo panorama con la pretesa poi di ottenere, in ricompensa, l’aquila coronata, una moneta che però nessuno aveva perché era di grande valore e, con questo abile trucchetto, canzonava tutto il vicinato. Quando non era al pascolo, Apé passava il tempo a gironzolare nella stalla. Il suo principale assillo era stuzzicare il giovane balbuziente, addetto alla mungitura delle bestie il quale, stremato dai suoi capricci, finiva per cedere alla penitenza che consisteva nel calarsi le braghe e giocare con lei a tira e mosca, perdendo sistematicamente. Nel mirino della piccola c’era anche l’agraro che aveva una gamba mezza offesa a causa di un calcio ricevuto da Adolfa, una vecchia cavalla acquistata per quaranta stelloni al mercato rionale e che, per quell’incidente, poveretta, restò legata al morso in uno striminzito recinto a difendersi, a vita, dai tafani. Ogni tanto, Apé ripiegava anche sul rozzo fattore che era addetto a scaricare il latte per venderlo in paese, oltre che a sorvegliare gli animali durante la stagione invernale per proteggerli dalle aggressioni dei lupi. La piccola aveva una vasta gamma di scherzetti, appresi a sua volta da suo fratello Annibale che si era arruolato come cadetto in Slovenia, quando lei aveva dieci anni e che non vedeva, oramai, da oltre due anni. Anche se tutti conoscevano i giochetti di Apé, ogni volta fingevano di cascarci, tanto per ingannare il tempo nei pomeriggi d’estate, seduti sotto la frescura di un tiglio nato spontaneamente di fianco al casone. All’età di tredici anni Apé ebbe un’altra stranezza. Era di maggio e come ogni anno si doveva, per devozione, fare offerta alla Madonna patrona di Slovenia. Come fioretto, Apé decise di risparmiare tutta la fioritura della rosa canina. Si limitò a staccarne solo le spine, dal basso del cespuglio fino alla sua portata, e le conservò in una spessa saccoccia di iuta tenuta insieme da una filaccia annodata alla vita e, per tutta l’estate di quell’anno, andò scommettendo che in occasione della raccolta dei frutti di settembre lei non si sarebbe punta. Apé si vantava di raccoglierli con entrambe le mani, anche da bendata, “a tempo dell’acqua nella cannella” ma nessuno le credette. “..Ecco, un’altra delle sue!”.. pensarono. A sera, come un’esperta abbachista la piccola contava le sue spine (…per modo di dire, perché non conosceva la numerazione se non fino a dieci, e per arrivare a venti spesso si confondeva), le separava per forma e spessore, a punta diritta, ricurva, grandi e piccole e le riponeva in due gavette di alluminio che aveva trovato in una cava nascosta da un cespuglio di ginestre. All’insaputa di tutti, conservava le gavette sotto il covone di fianco al pollaio, perché le galline facessero loro da guardiane. Settembre era alle porte ed una notte, destatasi da una intensa fitta all’inguine, sentì, con il palmo della mano, che uno strano tremolio le faceva sussultare il ventre.“Ecco! ..ci siamo!”, ed immediatamente si ricordò delle parole che le disse la perpetua durante l’ultima processione. Quel giorno, la donna la strattonò a sé e le disse che quando la pancia le avrebbe sobbalzato di dolore, l’acqua si sarebbe trasformata in vino e che, non appena avesse avuto sentore, bisognava che si recasse di corsa in sacrestia per indossare l’abito della festa e prepararsi alla cresima. Un arguto espediente per dare alla piccola qualche suggerimento sull’imminente venuta del mestruo, data anche l’assenza della sua povera mamma. Apé saltò giù dal soppalco, prese la mantella ed uscì di corsa dal capanno ma, chi avrebbe potuto farle una festa a quell’ora di notte? Così pensò di attendere il mattino nella stalla. Si accovacciò all’angolo del pollaio ai piedi dell’acerra che serviva ad appiccare lo sterco durante la sfogliatura del granoturco e, con le poche foglie sparse, provò a compattare un piccolo pannetto, così come le aveva detto la perpetua. Quella notte le galline stranamente tacevano, come pure i capretti. In quel silenzio, Apé si sentiva terribilmente sola ed anche infastidita da quel curioso bacucco a cupola che portava sul capo e che le dava l’aspetto di uno sciapo fungo capovolto. Non lo aveva mai sopportato, sempre sporco di fuliggine ed infeltrito di acqua piovana, eppure seguitava a portarlo perché le era stato cucito dal nonno. Le piaceva sedersi sulle ginocchia del vecchio, appesa alle sue labbra, intenta ad ascoltare sempre lo stesso avvenimento dell’arrembaggio di Spagna e con le sue manine lucidava quelle vistose patacche dorate apposte alla giubba. “..Perché io sono nata qui e non altrove?” chiedeva Apé. Il nonno, che ne aveva vissute e viste tante, le diceva che lei era piovuta lì perché quella montagna era la più vicina al cielo e che cadendo sul quel soffice altipiano, non si sarebbe rotta l’osso della “cabèza”. Se lo sentì ripetere così tante volte che finì per crederci. All’improvviso un raggio di luna filtrò nella stalla e con quel bagliore Apé poté guardarsi attentamente per accertarsi che l’acqua si fosse trasformata in vino ma, si vide solo goffa, più che vino si sentiva puzzare come un barile di aceto in quel gonnone di fustagno marrò abbinata a quella mantella che, a malapena, le copriva gli avambracci. Apé non aveva altri ricambi, nemmeno per la quadriglia di carnevale, e quando scendeva in paese per la funzione domenicale si infilava qualche grande corolla tra i capelli e la sua immaginazione galoppava di gioia. In paese le piaceva parlare con persone nuove e, quando capitava di incontrarle, la sua lingua diventava come un fiume in piena. Sgambettando qua e là si avvicinava ai vecchi musoni, solitamente seduti in piazza attorno al castagno, e chiedeva loro indicazioni sconosciute. Apé diceva di non essere nativa di quel posto e di essere di passaggio; era lì perché doveva incontrare un certo Galeone, figlio del Generale di primo vascello Primiano. Con le spallucce alzate a far altalena avanti e indietro e con le mani a cingere i fianchi diceva di essere una principessa che era stata venduta dalla matrigna, la regina di Spagna in persona, ad un rozzo mezzadro di montagna per ben dieci aquile coronate! Concludeva la storiella aggiungendo che sarebbe presto fuggita a cavallo per tornare al suo castello in Catalogna! Faceva sorridere chiunque. Quei pochi oriundi del paese l’assecondavano con lo stupore negli occhi per allungarsi il divertimento, senza mai umiliare la sua perspicace fantasia. I suoi desideri facevano tenerezza, perfettamente calibrati alla misura delle sue tasche che frugava come fossero la cambusa di una nave e si rallegrava per la quantità di cose che andava via via raccogliendo. Un forte sussulto e Apé si piegò tutta in avanti. Il ventre cominciò a dolerle e trattenne il respiro per qualche istante. Ebbe un improvviso scatto d’orgoglio... “ora basta! E’ la mia festa!”…disse. Affondò la mano nel tascone, afferrò una manciata di corolle e le fece roteare per aria come fuochi d’artificio. Si sentì pervasa da un senso di pienezza, un enfasi che purtroppo durò poco. Nel fragore dei suoi flutti emotivi, Apé navigava in una galassia di pulsioni sconosciute quando un forte fruscio, di soppiatto, l’ammutolì. Tese l’orecchio in quella direzione ed avvertì la presenza di qualcuno. L’ombra di un uomo si rifletteva lungo il pagliaio. Apé fece un passo all’indietro e si accostò al pollaio nutrendo, dentro di sé, la speranza di non esser stata vista. L’uomo non era lì di passaggio, aveva visto Apé dirigersi nella stalla e pensò di raggiungerla in risposta, secondo la sua immaginazione, a tutte le occhiate che gli aveva riservato come un esplicito invito. Conosceva a malapena un centinaio di parole ma disponeva di un carosello di richiami per animali selvatici che usava per cacciare bestiole da pelliccia, che impagliava come trofei per esibirle all’annuale raduno dei cacciatori. “E’ una stupida ragazzina... Taci!” si disse l’uomo, come a voler rispondere ad una terza persona, “Non vorrà certo ragliare come un asina?!”. Avanzava nella stalla lentamente e si sentiva indebolito dal languore fin dentro le viscere, soprattutto quando vedeva Apé sfogliare i grappoli di “sariese” col quel canestro adagiato a bascula sulle ginocchia scarne e con i polpacci sfacciatamente in vista. Ora era lì, accecato dal fremito del suo gonfio addome completamente immerso nel chiasso della sua anima, farneticava di delirio e debbiava la pungente paglia a piedi scalzi. “Altro che occìatin!” pensava. Stava assaporando la sua vendetta, con l’animo esacerbato da quell’inappagato desiderio di avere una moglie tutta per sé che la vita gli aveva tristemente negato. Vide Apé quella stessa mattina trasportare la pesante fascina aggrovigliata ai suoi capelli fermati da due, o forse tre cicogne di alluminio ritorte e intanto annuiva, grattandosi la sua folta e puzzolente ascella rossa, intrisa di acari. Gli veniva il sangue agli occhi, sussurrava monologhi sconclusionati e sudava come un mulo in quel ripasso di ricordi. Si avvicinava ad Apé come un orso affamato. Nella penombra avvistò i suoi piedi, due stivaletti con una fibbia laterale un po’ erosa dalla ruggine, un leggero luccichio che la tradì, mentre strisciava all’indietro rasando i grossi cumuli di paglia che friggevano ad ogni leggero spostamento. Le venne un mezza idea. Allungò il braccio sotto il covone ed avvicinò a sé le gavette. Aprì i coperchi con un secco colpo di tosse, affondò la mano ed estrasse una abbondante manciata di spine e in pochi secondi ne sparpagliò l’intero contenuto come un’ampia palizzata attorno a sé e poi attese, fingendo di aver trovato posizione al suo sonno. L’uomo prese coraggio ma, dopo un salto in avanti, il crepitio della paglia si trasformò in urla strazianti, intervallate da bestemmie che fecero scendere tutti i santi dal Paradiso. In qualunque direzione andasse era un continuo calpestare di spine che gli laceravano la carne in profondità. E lui rotolava sulla schiena, gemeva come un toro impazzito e sanguinava copiosamente. Era il rozzo fattore, Apé lo riconobbe, era proprio lui. La piccola si rizzò in piedi, tirò sù il gonnone alle ginocchia e scappò di corsa fuori dalla stalla. Tornò al capanno con il fiato in gola, salì sul soppalco e si infilò sotto il suo sacco ancora tremolante. L’uomo rimase lì immobile in un agonizzante lamento, interamente lacerato. Il pensiero di essersi più volte tirato indietro nella sfida lanciata da Apé sulla raccolta della rosa canina e di come si sarebbe potuto, magari, salvare da quella trappola, gli comprimeva il respiro che sbottava in incessanti singhiozzi. All’indomani, nessuno si domandò nulla, o forse nessuno volle sapere più di tanto. Quella disgustosa visione di sangue trasfuso nella stalla ebbe un puzzo che non si dimenticò facilmente. Da quel giorno, Apé fu assalita da un indelebile senso di colpa che non si attenuò nemmeno col passare del tempo. Per lo scampato pericolo, non praticò più alcuna collezione per tutti i restanti giorni della sua vita, e capì che l’innata ingenuità, condita dalla sfrontatezza della sua adolescenza, poteva diventare un richiamo pericoloso. La montagna poté nuovamente rifiorire al suo nettare e lei, per ordine del padre, non scese più in paese se non per seguire la processione. Il rozzo fattore, che andò subito in confessione, venne ammonito anche dal Reverendo che ritenne l’evento una giusta punizione inflitta da San Giorgio per essere stato irragionevole e selvaggio come un animale. Per la vergogna l’uomo non vide più la luce del sole e, l’anno successivo, si ammalò di una malattia agli occhi, che lo rese gradualmente cieco. Visse perciò da sacrestano, addetto a scampanare la chiesa del Reverendo ad espiazione del suo peccato di carne e d’istinto ma, malgrado ciò, non v’è di lui alcuna traccia in una lapide nel cimitero di paese. In quanto ad Apé una tomba la trovammo, ed era anche di pregiato marmo rosso di Verona all’ombra di un cespuglio di ginestra, con una prece del fratello Annibale. Sul suo epitaffio, senza cognome, si legge “Eutonia (dal greco eu|to|nì|a che significa stato di equilibrata distensione psicofisica e per designare la tensione dell'anima verso un'azione buona) detta Apé, un fiore di anni 16, qui giace per caduta accidentale in una fitta giornata di nebbia.”

Fine

15 Settembre 2015
marilena.capitanio@gmail.com

Racconto per Odi et Amo
Antologia Poetica e Letteraria 
Ciò Che Caino Non Sa
a cura Maria Teresa Infante
Pubblicazione La Lettera Scarlatta



Appunti di Viaggio 146 (ELOGIO AL TEMPO)


Elogio al Tempo


Mi sono data un tempo..
un tempo per nascere, per capire, per conoscere
un tempo ritagliato, presunto, preteso, immaginato
un tempo che non avrei né pianto e né rimpianto,
un tempo che non avrei inseguito o desiderato
un tempo che non mi sarebbe comunque bastato
un tempo che non mi sarebbe stato lauto o avaro
... mi sono data un tempo, è strano
solo perché avessi dell'altro tempo preso a caso
che col passar del tempo rare volte m'ha aspettato
perché è stato un tempo che non s'era manifestato
ed ora..
che ho motivo di pensare al giusto tempo prospettato
mi sono data un tempo che l'ora non ha più tempo
un tempo che non aspetta, non corre, non resta
un tempo che non spiega, non delude, non illude
un tempo che non giudica, non incupisce, non transige
un tempo che non annaspa, non percuote, non stordisce
un tempo che non mi fa da termometro sempre indietro
un tempo che non morde in attese disattese ..ma
un tempo che illumina, dona, consola, intenerisce
un tempo che lacrima, ricorda, mansueto perdona
e poi penso ...che tempo sarà mai questo?
è il momento che forse non si parli più di tempo?
ma il tempo di per sé non fa mai un condono
nemmeno nell'attemparsi a temperar se stesso
..e nel frattempo..
mi sono data, da stupida, un altro tempo
per essere a stento di nuovo in tempo
al suo prospettato temporale appuntamento
sarà per questa sua non puntualità il dire che
...chi ha tempo non aspetti tempo
perché..

coloro che più non pensano che c'è così poco tempo
è un tempo che si vede oltraggiato nel proprio nome
solo dalla tempesta o dalla finestra del proprio dolore.

[Intercambiabile la parola tempo in amore]



19 Gennaio 2016
marilena.capitanio@gmail.com

Appunti di Viaggio 145 (OCCHI DIVERSI)


OCCHI DIVERSI

Siamo diversi e pur sempre uguali
nella convessità degli occhi
nel colore e nella grandezza
nel pianto e nella cupa tristezza

Siamo diversi ma pur sempre vicini
nella cecità di fronte alla bellezza
nella lacrima quando il freddo arde
nell'estasi quando la pelle trema

Siamo diversi ma pur sempre uniti
nelle sere calde, nelle notti spente
nei ricordi che infiammano la noia
nelle tante foto che ci fanno storia
nell'afferrar parole che volano ardite

Si, siamo uguali ma pur sempre diversi 
nelle poche o tante pagine di qualcuno
nello sfogliare il tempo senza sapore
nel sentirci forti e tante volte nessuno

Unici ed uguali 
nel non voler capire il malumore
nell'aspettare e abbracciare l'amore
nell'intensità degli sguardi delusi
nella carne che chiede premura
nella malintesa o temeraria arresa

Siamo tutti così diversamente uguali
nella dolce carezza donata o pretesa.


11 Gennaio 2016
marilena.capitanio@gmail.com